mercoledì 6 marzo 2024


Lo devi leggere (7)

Esistono libri per curare la nostalgia.


A casa di Judith Hermann, Fazi Editore


A casa - Judith Hermann | Fazi Editore

 

“Questo mondo è il mio mondo perché mi trovo qui in questo momento

 

Questo è uno di quelli, per chi, come me, sa o almeno intuisce che dietro al sentimento della mancanza, della solitudine o della malinconia, talvolta, esiste una strana fonte di felicità, un richiamo del passato nel presente. Rimedio che funziona.

 

L’attesa di un compimento, che forse è già avvenuto ma che consola, nel desiderarlo ancora.


La nostalgia diventa allora non il vuoto del presente ma la pienezza di ciò che fu, un antidoto a quello che, mancando, avvelena il giorno. Un ritorno di felicità improvvisa che inspiegabilmente permea nel respiro del presente e ritorna, pieno e possibile.

 

Come guardare una fotografia di un istante felice.

Ferisce perché non è che un ricordo. Non è più realtà.

Lenisce, pure, poiché quel che è stato è ancora vivo dentro ad una parte silenziosa del nostro stomaco. 

Pulsa ancora, regala ancora energia, torna a trasformarsi in dolce dolore felice.

Ossimori.

 

È questo quello che accade alla protagonista di un libro musicale, “ A casa”, grazie ad una penna originale e ritmica (si sente il suono dei suoi "dice"), che accompagna il lettore tra il passato e il presente, tra il dentro e il fuori, tra mondo esterno e mente estrema.

 

La vita di una donna, di cui in tutto il libro si omette il nome (scelta senz’altro non casuale della scrittrice), scorre con uno sguardo rivolto al passato, riempito pienamente dal desiderio verso una figlia amata che ha scelto una vita da girovaga e solitaria e dall’affetto verso un marito incapace di evolversi ma che rimane il destinatario di numerosi pensieri e lettere.

 

La protagonista, così ancorata a ciò che è stato, sente però di aver bisogno di una nuova vita, di un nuovo luogo, di un nuovo luogo dove portare radici recise, ancora pulsanti di linfa. 

Sente di aver bisogno di ridisegnare la sua storia, le persone che ama, l'idea di se stessa.


Comincia così un nuovo racconto, con nuove amicizie, un nuovo gemito, porte lasciate aperte, rumori sconosciuti e un nuovo modo di vedere il mondo: semplice, lento e basilare.

 

Il nuovo luogo è fatto di tramonti, di campagna sconfinata, di animali, di case rade, di inverni gelidi e persone silenziose ed originali. 


Mimi, l’amica vicina di casa, nuda agli occhi del lettore, è la compagna di avventura di cui avremmo bisogno quando non riusciamo ad uscire dal nostro guscio, dal nostro passato. 


Un fratello che non è cresciuto e che rimane ancorato ad una idea di amore giovanile, puerile e tragico ed una nuova passione ancestrale, verso un uomo, Arilde, diverso e roccioso, completano il gruppo delle storie personale a cui presto, chi legge, si affeziona e che rimangono nell’aria anche a libro chiuso.

 

Due immagini ricorderò a lungo: una cassa da mago in cui una donna verrà spezzata in due e nella quale ognuno di  noi si trova, metaforicamente, ad un certo punto della sua vita e la trappola per martore posizionata in soffitta nella quale talvolta speriamo di trovare o bloccare qualcosa che non conosciamo.

 

Un libro per capire quale luogo chiamiamo casa, di quali persone abbiamo bisogno, quanto silenzio e quanta solitudine possiamo sopportare, quanta bellezza abbiamo intorno e dentro, esattamente nel luogo dove ci troviamo. Niente di più.

 

Un libro contemporaneo e insieme senza tempo.

 

Mi spiace solo, ora che ho finito di leggerlo, di non conoscere il  nome di questa donna, visto che si aggiunge a quelle amicizie incontrate nei libri che resterà a lungo nel mio immaginario.


Da leggere.

 

 

  

mercoledì 21 giugno 2023



 La strada che ci regala intensità

 

(sempre sulle occasioni da non perdere)

Giugno 2023

 

 

 

Conosco un bimbo di 11 anni che ama il calcio.

Come suo fratello di 14 anni.

Come il loro papà.

Come i loro nonni.

Come gli zii, quasi tutti.

 

La passione è il motore di molte azioni umane e la loro passione ha decisamente una forma sferica, fango sotto le scarpe e pomeriggi di allenamento e partite.

Questo bimbo, dagli occhi grandi e neri, dal cuore tenero e sensibile, dalla intelligenza viva, ha vissuto, la scorsa stagione, un anno calcistico eccezionale, un anno che certamente nella sua vita sarà memorabile perché ha giocato per una squadra professionistica, con altri bimbi talentuosi scelti uno ad uno.

 

Una annata piena di soddisfazioni per tutti, per chi lo ha guardato e sognato con lui, per chi lo spronava, per chi lo attendeva fuori, per i mister che lo hanno frequentato e conosciuto, per i nuovi compagni di avventura, giocatori in erba come lui.

 

È arrivato giugno e con esso il giorno atteso dai più, in cui la società comunica a ciascuno se l’esperienza continuerà o se è arrivata al termine.

 

Quel bimbo non continuerà l’esperienza professionistica, tornerà a giocare nella squadra del suo cuore, quella nella quale, a 5 anni, è iniziato tutto, sui campi dove ha imparato a calciare, di punta, di collo e di cuore.

 

Una occasione persa?

Per molti, ma non per tutti.

 

Non perdiamo l’occasione di guardare ciò che conta, con occhi maturi. Conta averci provato, conta l’esperienza di vita che ciascuno porta con sé. Contano le volte in cui ce l’abbiamo messa tutta e abbiamo provato a migliorarci.

 

Non perdiamo l’occasione per ricordarci che, quando si diventa più grandi, è molto più doloroso pensare a quello che non abbiamo avuto il coraggio di vivere per paura del fallimento che ricordare le esperienze vissute in pieno e poi terminate. 

 

Non perdiamo l’occasione per dire grazie, quando si vive una esperienza unica e che cambia chi la vive. Grazie a chi l’ha resa possibile e a chi ci ha accompagnato nel cammino.

 

Non perdiamo l’occasione per riconoscere i propri limiti e le proprie mancanze perché è la sola condizione che ci consente di lavorare per superarle.


Non perdiamo l’occasione per riconoscere il merito di chi riesce.

 

Non perdiamo l’occasione di ricordarci che quello che ci ha reso felici difficilmente è stata una singola “cosa grande” ma più facilmente un insieme di tante piccole cose belle. Normalmente queste piccole cose hanno a che fare con le persone che abbiamo conosciuto durante un percorso.

Le persone sono sempre le tappe migliori dei viaggi che compiamo. 

 

Non perdiamo l’occasione di imparare dagli ostacoli. Non perdiamola.

 

In pochi forse conoscono questa storia ma vale la pena raccontarla per quello che ci insegna.

È la storia di un ragazzo che si chiama Evan Ruggiero, classe 90, che ha sempre amato il ballo e la danza e l’ha sempre praticata sin da piccolissimo. Quando ha compiuto 19 anni gli è stato diagnosticata una forma rara di tumore delle ossa e ha subito l’amputazione del ginocchio e pesantissime terapie. Nonostante questo dopo quel tremendo momento, ha ripreso a danzare con una gamba sola e con la protesi. È un vero ballerino, attore e performer che conta tantissime collaborazioni ed esibizioni. Nelle numerose interviste ha sempre detto di saper gestire i problemi e di aver imparato ad essere forte grazie al problema che lo aveva riguardato. Ha affermato: Non ho scelto la mia condizione ma probabilmente la mia carriera sarà più intensa e migliore grazie alla mia protesi”.

 

Non perdiamo l’occasione per acquistare intensità attraverso le strade che percorriamo.


mercoledì 31 maggio 2023

COSTITUZIONE ITALIANA | PAeSI - Pubblica Amministrazione e Stranieri  Immigrati




Le occasioni da cogliere (anche quando siamo feriti).

Siamo ancora in tempo.

 

 

Qualcuno, che nessuno conosce, ha deturpato la nostra scuola elementare. Quella scuola che i nostri figli frequentano da anni, scenario e palcoscenico dei loro giochi, del loro apprendimento e dei loro anni più spensierati.

 

Lo ha fatto di notte, con la complicità del buio, con strumentazioni notevoli che gli hanno concesso di coprire di vernice quasi ogni angolo dell’edificio, persino i luoghi più alti. Con la specifica volontà di imbrattare di rosso muri e cortili che prima sfoggiavano un color mattone d’altri tempi. 

 

Lo ha fatto perché ha ritenuto che quello fosse il solo modo di comunicare agli altri il suo pensiero politico sui vaccini, sull’agenda 2030 e sulla trasformazione digitale. E usando parole terribili come morte, assassini, trappola.

 

Ha violentato la scuola. Sono state ore di angoscia perché dirigenti, insegnanti, genitori e anche bambini si sono interrogati, ognuno nel suo ambiente, sulle ragioni di un atto tanto vandalico. 

Ciascuno di noi ha il suo pensiero e ciascuno di noi ha diritto di sentirsi conforme o contrario alle scelte di chi ci governa. Non è una colpa avere un pensiero diverso.

 

Si chiama democrazia e per questa tanti nonni e genitori hanno dato la vita, lottando e garantendo a noi, oggi, la libertà di espressione e pensiero. 

 

Eppure viviamo in un mondo che, tra imperfezioni e migliorabile, funziona grazie ad alcune regole che ne determinano l’efficienza. 

 

Gli esempi sono tanti, la sanità, la scuola, le strade, i luoghi di lavoro, le associazioni sportive, l’aiuto alle fasce più deboli, le piazze, i trasporti…

Come potrebbe funzionare tutto, seppure con errori e lacune, se alla libertà del singolo non venisse posto un limite sacrosanto e imprescindibile, dato dal rispetto delle cose comuni, dalla libertà dell’altro e dalla accettazione di regole condivise di civiltà? 

 

Tutta questa storia della scuola equivale, per chi lo ha causato, ad una occasione perduta. Perché le idee di ciascuno, quando sono preziose e sentite, meritano altri modi per essere diffuse. Strumenti civili di divulgazione, proteste democratiche e non vandalismo puro che offende e ferisce. 

Nessuno può dirci cosa pensare ma le modalità con le quali esterniamo il nostro pensiero rientrano nelle regole del vivere civico, dei diritti costituzionali e della società civile.

 

Eppure ai nostri bimbi vorrei dire che per noi questa è una preziosa occasione da cogliere. 

 

Per ricordare anche da grandi il dolore intimo di chi viene offeso o degradato.  Se siamo in grado di ricordare come ci siamo sentiti oggi, difficilmente causeremo ferite simili agli altri. 

 

Per capire il senso della libertà, che è l’unico bene che dobbiamo salvare ma per il quale occorre coscienza e rispetto dell’altro.

 

Per imparare a mettere il nostro viso e la nostra storia quando comunichiamo un pensiero, ad essere responsabili dei nostri gesti. 

 

Per capire che la scuola, gli adulti, la vita in generale non deve dirci cosa pensare ma deve offrirci gli strumenti per creare il nostro pensiero. 

 

Per ricordare che il rispetto delle regole è una regola del vivere comune.

 

Per denunciare chi è violento, nelle azioni e anche con le parole. 

 

Per imparare a difendere quello a cui teniamo. 

 

Per imparare a diffondere il nostro pensiero attraverso canali e strumenti civili. 

 

Per comprendere la bellezza di tutto quello che ci circonda. E la bellezza merita rispetto. 

 

Chiunque abbia compiuto questo gesto non ha compreso con ogni probabilità, quando era bambino, questo insegnamento. Altrimenti non avrebbe certo agito in questo modo.

 

Noi però siamo ancora in tempo. Con i nostri figli e con noi stessi.

 

Salviamo la nostra libertà, difendiamo la civiltà e la Scuola, che è il luogo più importante di tutti, curiamo la voce con cui parliamo, costruiamo senza distruggere. Almeno noi.

 

 

 

 

 

P.S. Il primo articolo della nostra splendida Costituzione attribuisce la sovranità al popolo, ma ci chiede di esercitarla nei limiti e nelle forme della Costituzione. 

domenica 19 febbraio 2023



Lo devi leggere (6)

Sul dolore, sulla mancanza e sul futuro.

Sono difficili le cose belle di Matteo Nucci.





 

Quello che conferisce alla letteratura una pura e rara bellezza è l'universalità dei sentimenti che la ispirano e la muovono. 


Siamo tutti diversi, profondamente. Ce ne accorgiamo in ogni contesto, in ogni singolo momento della giornata. Ci sono i mattinieri, quello che si svegliano all’alba, i dormiglioni, quelli che odiano la sveglia che interrompe il loro sonno dolce. C’è chi fa colazione, chi no perché al mattino ha la nausea. Chi ama il caffè, come me, chi il the, chi sceglie il vestito da indossare al primo colpo e chi cambia almeno due completi diversi prima di scegliere quello giusto, chi si muove in auto, chi in bici, chi ama mangiare al ristorante, chi a casa, chi accende la televisione non appena entra in casa e chi la tiene sempre spenta, chi legge su un libro, chi sul cellulare, chi cerca gli amici e chi non risponde al telefono , chi ride sempre e chi meno, chi piange spesso e chi mai, chi corre e chi resta fermo, chi dorme sul fianco e chi a pancia in sù. 


Però c’è qualcosa che ci accomuna tutti, in ogni luogo della terra a prescindere dalla lingua che parliamo, dal mestiere che facciano, dalle abitudini che ci rappresentano, dalla latitudine dei nostri luoghi, dall’età e da tutto il resto. 


C’è una stretta forte dentro, tra lo stomaco e la gola, che proviamo quando perdiamo una persona che amiamo. 


I più fortunati tra noi sanno quanto sia triste perdere un nonno, ad esempio, da bambini, fanciulli o giovani adulti. Fortunati perché se conoscono questo dolore è perché hanno ricevuto il dono di vivere insieme ad un nonno, di conoscerlo, di trascorrere tempo e condividere storie e ricordi con lui. Il dolore che proviamo quando perdiamo chi amiamo è qualcosa di profondo, netto, continuo ed inedito e non ha nulla a che vedere con la sofferenza di un momento: è qualcosa che ci cambia, ci capovolge e ci rimane dentro.

 

Cosa daremmo per poter rivedere almeno una volta un caro che non c’è più, per parlargli e per capire in quale luogo dimora tutta quella energia che quella persona aveva dentro di se? 


Matteo Nucci prova a raccontarcelo nel suo "Sono difficili le cose belle", uno di quei libri scrigno il cui titolo rappresenta il contenuto, ma non lo definisce interamente, portandoci a leggerlo per capire quali cose, quanto difficili, quanto belle. All'autore è cara la costruzione sintattica di questo titolo, che ritroviamo in una altra sua pubblicazione e anche all'interno del libro.


Un libro scrigno fatto a strati, perchè ha tante pagine e tanti simbolismi quanti siamo in grado di leggere e accettare, di vedere e di cercare. Credo che se il lettore che è in noi lo leggesse in fasi diverse della sua vita, scoprirebbe angolazioni diverse, come accade con quei libri strepitosi come Il Vangelo, Il piccolo Principe, i miti greci e pochi altri. Un libro per tutti, diverso per ciascuno, utile ad ognuno. 


Qui si racconta un incontro, a metà tra la fiaba e il racconto onirico, tra una nonna e una nipote, che la vita ha separato ma che continuano a cercarsi e a pensarsi intensamente.


Si racconta del peso che chi rimane porta nel cuore, un peso che può trasformarsi in zavorra quando non riesce a trasformarsi. Si racconta del dolore per questo peso che conserva chi se ne va e che invece dovrebbe diventare qualcosa di leggero e intangibile.


Attraverso la tenerezza di dieci anni vissuti insieme (la nipote ha dieci anni di ricordi con la nonna) e grazie a tanti flashback che vengono rivissuti con le medesime emozioni di un tempo e lo sguardo postumo del presente, le due protagoniste ritrovano la gioia del tempo che hanno condiviso e provano a trovare modi nuovi per continuare a vivere pur essendo altro, pur essendo in altre dimensioni, pur credendo di non avere più occasioni.


I tanti episodi, in una Roma bellissima che sfoggia le sue ville e i suoi splendori, ci restituiscono il senso di un amore, quello che ci lega a chi non c'è più. 


Ed il dolore, la cura e lo sforzo che ci viene richiesto nel credere che si continui a vivere ovunque, dentro chi ci ama, nei suoi ricordi, nel suo pensiero e nei suoi gesti, sono proprio quelle fatiche i custodi della bellezza dell'amore. Un libro che consiglio a tutti, più e meno giovani, a chi sente quella stretta al cuore e trova un modo per trasformarla in qualcosa che profumi di futuro.


Conosci qualcosa di bello che non sia faticoso?

 

Buona lettura!

 

 

 

“E quando pensi che sia finita… è proprio allora che comincia la salita, che fantastica storia è la vita” A. Venditti

lunedì 13 febbraio 2023

 

L’istinto di distruggere, il desiderio di trasformare, il bisogno di costruire. Adulti e giovani, nel gioco dell’esempio


In tanti abbiamo visto, chi in diretta, chi dopo, la furia di Blanco sul palcoscenico del Festival di Sanremo 2023.

Quante volte, in altri luoghi, nelle piazze, nei parlamenti, nelle scuole, sugli spalti dei nostri stadi, nelle case e persino negli ambienti di lavoro capitano simili scene?

I fischi, il disprezzo, il monito vengono spontanei in molti di noi.
 
Quando osserviamo i più giovani, però, che siano i nostri figli, i nostri studenti, i nostri colleghi, dobbiamo fare uno sforzo in più, provando sempre prima a indossare i loro panni, cercando di pensare come deve essere stare al “posto loro”.

È l’unica strada per sottrarsi ad un giudizio superficiale e per provare a comprendere. Con ogni probabilità non giungeremo a condividere ma possiamo forse fare tesoro di una nuova prospettiva e di un diverso sentire dal nostro.
 
A Blanco, se fosse pronto ad ascoltare, direi che la strada della distruzione, quella che lui ha scelto di percorrere, non è la soluzione. Non lo è quando le cose non funzionano, quando non tutto fila liscio come vorremmo. Un microfono che non va, una cuffia che non consente di sentire la propria voce, un inghippo audio che rende difficile se non impossibile cantare, è solo una metafora di un ostacolo.

 

E quanti sono gli ostacoli che noi tutti incontriamo nel nostro incessante correre? 

Tanti, materiali o interiori, spesso più difficili da accettare di un difetto di acustica. Ed è proprio allora, quando c’è la strada interrotta, l’istinto primordiale è quello di distruggere, di arrabbiarsi, di spaccare tutto. Perché siamo costretti a fermarci, a rinunciare, ad attendere e talvolta a cambiare. Perché forse distruggendo ci illudiamo di cancellare la difficoltà e il fallimento.

La rabbia di Blanco, i suoi calci e la scivolata sugli stessi petali che ha sparso, sono l’effetto di quell’istinto basilare.
 
Però oltre l’istinto noi uomini abbiamo in dotazione anche una razionalità, un cuore, un pensiero che ci consente di riflettere sugli eventi e sulle possibilità che tali eventi ci offrono.
 
Anche un ostacolo può diventare una occasione. Anzi, a dirla tutta, i meno giovani lo sanno bene, sono proprio le difficoltà che ci offrono la possibilità di fare qualcosa di nuovo e di trasformare quello che abbiamo davanti a noi.
 
Cosa sarebbe successo se ieri Blanco avesse ballato invece che distrutto le rose? Se avesse lasciato lo spazio solo alla musica e ai suoi musicisti? Se avesse trasformato un difetto in un nuovo modo di fare musica? Forse chi lo guardava avrebbe intravisto una soluzione diversa, quella della costruzione. Una soluzione possibile di trasformazione.
 
Si possono costruire ponti quando le strade sono interrotte da acque o da crepe, si possono studiare soluzioni quando ci sono problemi importanti, si cuciono con ago e filo i buchi nelle trame dei tessuti, si incollano con l’oro i cocci delle ceramiche, si perdona l’errore quando capita che si sbagli. Si studia per superare un esame, si fatica per raggiungere la vetta, si suda per imparare a correre. Si riprova quando qualcosa non riesce al primo tentativo, si accettano le critiche, ci si alza presto se si vogliono vedere i colori dell’alba.
 
Siamo fatti per costruire, meglio ancora per trasformare, non per distruggere.

E quando decidiamo di distruggere, presi dall’ira, è nostro compito raccogliere i cocci, spazzare via i petali.
 
Eppure il furore giovanile è da accettare, è insito nell’illusione di potenza, dei primi anni, destinata a sedarsi.

Se noi adulti oggi non scusassimo la rabbia di tutti i Blanco che incontriamo, faremmo lo stesso errore dell’artista, distruggendo la sua immagine che ora ha bisogno di essere sostenuta e forse per lo meno compresa. Non gli apriremmo una finestra verso una trasformazione.
E se anche la sua fosse una trovata commerciale o una messinscena già prevista, la sostanza non cambierebbe.
È un buon modo per trasformare il mondo e iniziare a farlo in prima persona: iniziamo noi adulti a fare quello che chiediamo ai nostri giovani.

lunedì 24 ottobre 2022




La fine di questo sentiero coincide con l'inizio della vostra strada

Agli amati cresimandi

22 ottobre 2022

 

 

Cari ragazzi, 

 

noi catechiste vi parliamo tanto di comunità e di servizio ma, guardandoci bene e a fondo, ponendo lo sguardo nelle nostre vite e nei nostri cuori, capiamo che anche noi, come voi, cerchiamo quotidianamente una strada per essere veri testimoni della Parola e della vita in Gesù. 

 

Forse a voi potremmo apparire stabili e sicure nel nostro servizio, ma non è così. Anche noi ci mettiamo in ascolto di una chiamata, proviamo a superare i nostri limiti, la nostra pigrizia fisica e mentale, tentiamo sempre di uscire dalla nostra zona sicura per incontrare il prossimo. 

 

Questi anni di catechismo per tutte noi sono state un percorso di fede, non sempre credevamo di avere le energie per essere buoni esempi per voi (e chissà quante volte non ci siamo riuscite pienamente), non sempre avevamo quella gioia di cui tanto abbiamo parlato con voi. 

 

Ci abbiamo provato, e per questo dobbiamo anche e soprattutto ringraziare voi, perchè il Signore ha messo ciascuno di voi sulla nostra strada per spingerci a vivere il Vangelo. Vi ricordate perché abbiamo scritto i vostri nomi sulla catena che oggi abbiamo presentato? Ciascuno di voi è speciale per Gesù e per noi ciascuno di voi è stato un dono bellissimo e una occasione di vivere in Gesù. 

I vostri volti, i vostri sorrisi e le vostre storie sono il senso di quello che abbiamo vissuto insieme.

 

Come capita a voi, anche ciascuna di noi vive e vede la comunità in senso diverso, a modo suo. Ma tutte abbiamo scoperto in questi anni la nostra amicizia in Gesù, sentirsi fratelli e sorelle, anche quando non condividiamo molto della vita quotidiana perchè Gesù è il Padre Nostro, come nella preghiera che recitiamo sempre insieme

 

Voi potrete vivere la comunità nel modo che riterrete più giusto per voi, partendo dalla vostra famiglia (che è il prossimo più vicino), gli amici della vita, gli ambienti della scuola che poi diventeranno quelli del lavoro, e verso tutte quelle persone che incontrerete nella strada. Esistono tante associazioni dove il vostro aiuto sarebbe prezioso, tanti servizi di cui la Parrocchia vive, tanti ruoli diversi che potrete interpretare. 

 

Alle volte vi sentirete sconfortati, altre volte più forti e gioiosi, ma Gesù sarà sempre con voi, sentirete che dentro al vostro cuore c'è sempre e sempre ci sarà una ricerca incessante per quello che è buono e bello. 

Quella fiamma che avete dentro è il divino che è in voi e non si spegnerà mai. 

Ogni incontro che farete da oggi in poi sarà una occasione per donare e ricevere, sempre. 


Offrite la vostra vita e ne riceverete in cambio gioia e amore.


Noi vi affideremo al Suo Consiglio per trovare quella Fortezza che ci sostiene.


Un forte abbraccio dalle vostre Catechiste.




martedì 19 luglio 2022




Lo devi leggere (5)


Sulla fede.

Sulla fiducia.

Sulla felicità.

 

 

"Amatissimi" di Cara Wall

 


 

Il titolo di questo libro mi ha subito catturata.

 

I superlativi assoluti sono sempre idealizzati, carichi di aspettative e molto ambiti.

 

L’immagine, poi, ha colto nel segno, considerando che il dipinto che presenta l’edizione italiana del libro è di Edward Hopper, il pittore che ha raccontato, con una vena realista e a tratti ipnotica, la solitudine della vita americana del XX secolo, dello stile di vita delle città e dell’abisso delle individualità umane. Il suo più celebre dipinto è Nighthawk, i Nottambuli, che ritrae 4 persone in un bar di Manhattan, in una città deserta e buia, che si ritrovano, ciascuno con il proprio mondo interiore, a condividere uno spazio di luce comune.

 

Bene, il dipinto di Hopper scelto per questo libro è ambientato in una stanza di New York, dove un uomo ed una donna trascorrono il tempo insieme pur rimanendo ciascuno impegnato nella sua attività, la lettura di un libro e di un giornale.

 

Il romanzo racconta, in una prosa coinvolgente, cinematografica e quieta, questa scena: la necessità di stare insieme, di credere, di condividere nonostante la consapevolezza di differenze enormi tra le persone, tra le storie passate che ciascuno porta addosso, tra gli sguardi verso il futuro.


Racconta di come la vita ci chiami ad impegnarci, nelle relazioni, nel lavoro, nei ruoli che rivestiamo e di quanto la qualità di questo impegno derivi dal rispetto e dall’amore che proviamo per noi stessi mentre viviamo.

 

Ci sono due coppie, due uomini e due donne: Charles e Lily, James e Nan.

 

Charles è un ragazzo che, opponendosi alle aspettative paterne, lascia il mondo della scienza e dello studio illuminato per studiare teologia e diventare pastore di Dio. Ha da sempre sentito nella sua vita l’impronta di un Creatore, la sua è una fede pura e compatta. Anche quando incontra Lily, ragazza ostile, ostinata, indipendente, non credente e apparentemente dura, che serba un dolore antico per la perdita dei suoi genitori, per Charles è tutto chiaro: l’amore per quella donna rientra nel disegno che Dio ha per lui e la corteggia senza indugi, la sposa e la conduce con sé. 

Lei si innamora dell’uomo, non del pastore - come dice lei stessa - e lo segue, pur carica di sospetto e muri interiori.

Inizia per loro un rapporto di coppia che è insieme onesto, maturo, proprio perché nato dalla consapevolezza di una diversità di fondo dei propri credo e dei propri sguardi (di cui a dire il vero non parlano mai), ma anche irrisolto e monco, proprio a causa della stessa distante visuale e della difficoltà di comunicare nel profondo.

 

E poi c’è James, un ragazzo dalle origini umili che sente dentro di sé il bisogno di agire per un mondo più equo e solidale, di lasciare il segno, di sostenere le persone più deboli e svantaggiate e, quando si innamora di Nan, figlia di un pastore, dalla vita chiara e trasparente e fin troppo perfetta, decide di diventare pastore anche lui, nonostante la sua vocazione non sia aulica o visionaria ma concreta, inquieta e tutta umana. Nan lo seguirà anche lei ma proprio in questa perfezione rarefatta vedrà con il tempo le crepe di una esistenza che dovrà ancora compiersi.

 

I quattro ragazzi diventano uomini e donne e ad un certo punto i due pastori vengono chiamati a condividere un ministero congiunto in una chiesa di New York, la Terza Chiesa Presbiteriana del Greenwich Village. Lì c’è tanto da fare e la Congregazione ha bisogno proprio delle due vocazioni di Charles e James: di un pastore che predichi, che rassicuri sull’esistenza di Dio e sui suoi segni, che ascolti le confessioni e le storie dei parrochiani e di un altro che agisca, che permei nei quartieri poveri e malfamati di New York, che includa le storie difficili che non tutti vogliono ascoltare. 

 

Il romanzo racconta di come quattro persone così diverse possano vivere insieme, a due a due come coppie, in quattro come amici e dentro una comunità più estesa come chiesa. 


Racconta di quanto tempo ci sia bisogno per accettare che le differenze tra noi e gli altri non sempre ci allontano ma più spesso arricchiscono il nostro sguardo, di quanto l’amore non si fondi sempre sullo stesso credo ma sul bene reciproco, sulla ricerca di un posto dove la nostra esistenza acquisti valore.

 

Le coppie poi diventeranno famiglie e il cerchio delle relazioni si allargherà a nuove vite, che, racconta la Wall, spesso diventano la risposta a interrogativi antichi sulle nostre esistenze. 

 

I figli, come tutti gli altri ma più evidentemente degli altri, non sono come noi, non sono sempre come li immaginiamo ma il loro arrivo diventa una opportunità, forse quella più importante, per uscire dal nostro muro interiore e accettare l’altro, la vita e avere fiducia nel mondo.


La fede si trasforma in fiducia e al lettore pare che Dio agisca attraverso gli uomini, attraverso la loro quotidiana responsabilità.

 

Questo è un romanzo sulla fede, sulla fiducia, sull’amicizia e sull’impegno.

 

La preghiera, come l’amore d'altronde, diventa più grande se ci si impegna quotidianamente in essa.

 

L’amicizia pure, quando è dono, non teme rivalità né gelosia.

 

I quattro personaggi si mescoleranno, si scambieranno le pelli: i più forti in apparenza, Charles e Nan vedranno gli abissi prima sconosciuti e incomprensibili mentre gli inquieti James e Lily intravedranno strade che prima erano ignote, troveranno soluzioni per se stessi e per gli altri.

 

La scelta del dipinto di Hopper è geniale anche in questo, perché nello stesso quadro c’è a destra un libro, che forse rappresenta la storia, il passato, le radici, le fondamenta di ciascuno di noi, e a sinistra un giornale, che rappresenta l’oggi, la vita che si consuma, l’impegno quotidiano. La sfida è porre in dialogo questi due mondi, il nostro passato con il nostro presente, i dolori di ieri con quelli di oggi.

 

Mi porto dentro, di questa lettura, l’idea che quello che nutriamo in noi diventi poi nutrimento esterno, la parte di noi che curiamo di più divenga il simbolo di ciò che anche gli altri vedono in noi ed infine quello che neghiamo a noi stessi si trasformi in muro e negazione verso chi è intorno a noi.

 

L’importanza di partire dall’amare se stessi per poter imparare ad amare gli altri.

 

Amatissimi, esordio di eccezione, da leggere certamente.

 

 

 

 

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