domenica 24 dicembre 2017

Vigilia è tornare. E non giudicare.
24 dicembre 2017

Non tutti, ma in tanti sanno di cosa parlo.
Di quello che ho sentito dentro, tra il petto e lo stomaco, nei 700 chilometri in auto che dividono la me di oggi dalla me di sempre. 

Quando chiudi la porta della casa che hai comprato, costruito, disegnato, desiderato, nel paese dove adesso abiti, più a Nord dei tuoi natali, pensi che non esista un luogo talmente tuo come quello. 

Poi l'autostrada, semideserta, lunga, lunghissima. 
Inizia piano la crepa, dentro.

Inizia a lavorarci il sole, diretto, in faccia sempre più caldo ad ogni passo. Scongela le papille del gusto e dei ricordi e ti ritrovi a sentire la tua musica di quando eri ragazzina e cantavi a squarciagola in ogni dove. 

Prosegue il paesaggio che si addrizza paese dopo paese e ti porta al mare. Lo vedi, prima poco, poi esteso, dopo immenso. E ti ricordi di quanti Natali trascorsi con lui, con le sue onde incessanti, con le sue risacche colpevoli. Quel mare, l'hai tenuto lontano, per tanti anni. Nel rivederlo non ti spieghi come tu abbia fatto a non cercarlo così a lungo. 

La crepa adesso è li, una vena che apre la superficie del corpo e lascia che si veda dentro. Adesso tutti possono guardare. 

Guardare la rottura che in ogni cuore migrato porta addosso. Un cuore che dice di essere forte, di adattarsi, di aderire ad ogni luogo. Ed è certo che ne sia in grado. Ma in fondo ha sempre qualcosa che manca, che chiama, che preme. 

Intanto metti i passi sul luogo del tuo passato. Calpesti strade che nel frattempo indossano nuove vesti ma che hanno lo stesso segreto di prima, portano alle case dei tuoi amici, ai luoghi di ieri. E mentre cammini, mentre ti accorgi che i volti di chi incontri non hanno più la medesima familiarità di un tempo, capisci cosa rappresenti la vigilia di Natale per te.

Per te, che sei partito, Vigilia è tornare a sentire carezze antiche, date da mani che non cercano di dare o prendere nulla  ma semplicemente di trovare. 

Vigilia è ammettere di avere mancanze, vuoti. Di avere un nuovo cuore errante che ama senza confini. Vigilia è il coraggio di provare a comprendere chi vive la tua stessa crepa ma non ha case presso cui tornare. 

Vigilia è tornare. Chi può tornare è partito. Chi è partito ha quella crepa nel cuore. 
Vigilia è ricordarsi chi si era, chi si è, prima di giudicare gli altri.


sabato 23 dicembre 2017

Il significato delle parole

23 dicembre 2017

(di Marino Pagano, giovane giornalista, poeta e amico bitontino)



Era sceso in paese per le feste, come sempre. Bambini in auto urlanti e giocosi, moglie tutta virtù e frenesia, pacchi pacchetti pacchettini. Pronti e via. L'autostrada, il solito fascino. Viaggio, pause, chilometri. L'Italia spaccata: lasci le brume di Pavia ed ecco il paesello

Ogni volta le stesse chiacchiere, le stesse frasi di circostanza, i parenti e le loro curiosità.
Zie, cuginastri e dei nonni ormai solo il ricordo. È già notte. Tardi. Dopo aver guidato tutto il giorno, i panini, le pipì e i caffè, ecco il riposo nel letto della sua vecchia stanza di ragazzo. La moglie e i pargoli di là, nel letto grande. Un'occhiata ai gagliardetti, a qualche vecchia enciclopedia e si dorme già.

Al mattino, per Francesco, un vecchio rito. La colazione al bar economico. Così, per tornare fanciullo. Un euro, caffè e cornetto. E fa niente se i genitori avevano insistito per il caffè di casa. 

Quell'uscita aveva un sapore speciale. Appena fuori dal bar, Francesco incontra due occhi, ne sente il richiamo. Non sono occhi nuovi, sembrano provenire da lontano.
Ma sì, Francesco ha davanti a sé Marco.
Marco, l'amico di una vita, di una parte importante di esistenza. Francesco e Marco, Marco e Francesco. Cresciuti insieme, fratelli.

Quanti anni da quella brutta incomprensione. Una vita a giocare, a far lite, a sorridere, a passarsi ragazze e poi il buio. Oblio.

Ma Marco ora è lì. Sulla via grande della cittadina, quella dei negozi, Marco è per Francesco l'emozione di un riconoscimento. 
È lui, c'è poco da fare. Chissà quante altre volte lo aveva cercato. E invece ora accade così, con la busta dei cornetti piena per i bimbi e forse anche per suo padre, al diavolo quel pizzico di diabete. "Ciao, Marco". E lui: "France', come stai? Ma quanto tempo è che non ci si vede? Lo so che stai fuori, me lo disse tua madre".
Francesco non riusciva a capire.  Marco fingeva di non ricordare o davvero aveva dimenticato la gravità di quanto allora successo? Il dialogo finì con una breve risposta sua e poi, coi cornetti caldi a pretesto, ecco la fuga.
Marco gli sembrava un'altra persona. Palesemente invecchiato e ingrassato. Un particolare gli rose l'anima. Marco aveva una stampella, zoppicava vistosamente e, forse, irrimediabilmente. Capelli bianchi. Un viso segnato. 

Ma gli occhi avevano parlato. Dicevano quasi aiuto. C'erano stati vent'anni di silenzio e un dolore che Francesco visse con dignità ma che non riuscì a cancellare. Troppo grosso il torto subito.
Il suo vero fratello intanto era terribilmente appesantito, soffriva, e tutto ciò era successo senza di lui. 

Assenze. Magari drammi ignoti. Il nulla. Quei due ragazzi inseparabili erano invece diventati perfettamente separati: da mille chilometri e poi da direzioni di vite ormai inesorabili nelle loro differenze.
Brillante ingegnere, Francesco; giornate intere passate ai banconi del bar, Marco.

I giorni successivi furono strani. Francesco sembrava assente. Sorrisi spenti e abbracci un po' così. Le feste passarono. Come da routine, tutto finì e la famigliola ripartì. Durante la sua permanenza, aveva provato a tornare in certi luoghi. Aveva cercato di nuovo lo sguardo del suo vecchio amico, quello che un giorno lo tradì e che ora sembrava tradito dalla vita.

Non lo rivide. 
Un bacio ai suoi, sempre più vecchi e sempre più soli. Il nord aspettava. E il lavoro pure. Durante il viaggio Francesco guidò con il pensiero altrove. Ma nessuno se ne accorse. Nemmeno i bambini, nemmeno la moglie. Francesco era triste.

Si chiedeva se quella vita da realizzato socialmente, ma con amicizie che non andavano oltre il suo pianerottolo, potesse bastargli. Amava sua moglie e così quelle due tenerissime pesti. Ma il suo sguardo ormai diceva mancanze. Francesco scrutò il cielo, disse a sé che si sarebbe inventato altri Natali e tutte le Pasque del mondo per andare di nuovo al suo paese, per cercare Marco. 

Marco invece un giorno morì.
Stava male, malissimo. Nessuno disse nulla a Francesco, che non ebbe notizie nemmeno da altri amici ed era lontano dai social.

Quarant'anni, di cui i primi venti a giocare con Francesco. Ma ora Marco non poteva più bivaccare tra bar e tabaccai. Si era accasciato e non avrebbe più camminato proprio l'indomani dopo quegli sguardi veloci e quelle sillabe stentate, emozionate.
Un incontro proprio impossibile da eludere.
Francesco scese e riscese al paese.
Smise di cercare solo perché capì che avrebbe passato i successivi venti e più anni a giocare coi ricordi, a correre nel suo cuore col suo amico galoppante, ad abbracciarsi nei bar contenuti in tutte le possibili fantasie, a segnare gol nella "porta dei miracoli", come chiamavano la stretta rete che di volta in volta costruivano per giocare a pallone.  

Francesco seppe. Pianse.

Qualche anno dopo, prima di raggiungere la tomba del suo amico, la vide già presidiata da un ragazzino che non piangeva ma che sembrava raccontasse qualcosa ad una fanciulla, che teneva mano per la mano. Francesco non volle informarsi. Non sapeva chi fosse. Qualcuno gli parlò di un probabile "errore di gioventù" di Marco. Quell'errore intanto era lì, in carne ed ossa, un pochino più grande dei suoi figli. Forse a parlare di un padre mai nato.
Francesco lasciò il cimitero.
Era maggio, il sole lo stava sfiancando.
Un segno della croce e poi capì.

Capì che avrebbe ritrovato l'amico in ogni domanda buffa dei suoi bambini, cui avrebbe insegnato che nella vita tutto, tutto, è da cogliersi e che semmai avrebbero potuto e dovuto imparare tanto dal silenzio vero ma nulla, proprio nulla, dalle parole di verità non dette, dai mutismi insensati, dalle pause infeconde.

Poi Francesco tornò ancora al sud e così un uomo di mezza età e un ventenne se ne andarono verso il mare a cercare spazi di solitudine abitata, a guardarsi negli occhi e a parlarsi, non si sa mai.
Roberto, il figlio di Marco, aveva proprio lo stesso sguardo di papà.


giovedì 21 dicembre 2017

Dal niente nasce niente. Il bello di qualcosa che è di tutti.
20 dicembre 2017


L’idea di organizzare un concerto di Natale, comune a due scuole, con circa 400 bambini ciascuna, in un palazzetto sportivo, in una serata infrasettimanale di fine dicembre, è sembrata all’inizio, a molti, folle. Impossibile da realizzare senza intoppi, si mormorava.

Le polemiche, come sempre accade, si nutrono di malcontento individuale e quindi crescono velocemente. Eppure noi genitori di questi quasi mille bambini li abbiamo sentiti cantare ininterrottamente nelle nostre case, per giorni. Ripetere brani, aprire spartiti, vedere video musicali, provare con gioia. Il giorno della settimana in cui c’erano le prove di musica è stato in questi mesi felice come il sabato, quando non vanno a scuola. La musica li ha condotti ad amare la scuola.

Poi è arrivata la serata, tanto attesa, e l’organizzazione è stata sperimentata, osservata e valutata da tutti.  Noi genitori ci siamo seduti, tutti, senza nessun problema. Nessun intoppo, ognuno aveva il suo posto comodo da cui poter vedere tutto. Abbiamo atteso pochissimo in fila per entrare, ancor meno per uscire quando è tutto finito.

Guardando meglio, come in uno zoom, nelle persone dello “staff”, c’erano i volti sorridenti delle numerose maestre, indaffarate ad organizzare i bambini ma con fare mite e rilassato. 

Alcuni genitori, di ogni classe, coinvolti nel servizio d’ordine e di accoglienza, felici di prestare un po’ del loro tempo per questa occasione.
I volontari, presenze sempre preziose.
I musicisti che hanno preparato i bambini, mai stanchi, gioiosi, coinvolgenti.
Una maestra su tutte, il Direttore Artistico, commossa per “gli angeli”, come li ha chiamati, che ha avuto il piacere di preparare e frequentare nelle ore di musica e di prova.

È iniziato il concerto e qui solo la visione in diretta può significare quello che ciascuno ha provato.

In quell’ora di canti le polemiche sono volate via come note, e tutti sorridevano, chi con emozione, chi con pura gioia. L’intera comunità scolastica ha anche raccolto delle libere offerte per concorrere a sostenere le spese per la festa, e la risposta è stata generosissima.
Come è potuto accadere tutto questo?

A Natale puoi, dicono.

Quando una cosa è di tutti, come la scuola, puoi decidere di cucire le tuniche rosse di tutti i bimbi senza chiedere nulla in cambio (come hanno fatto nonne, mamme e maestre), perché sai che stai creando qualcosa che regalerà un sorriso.

Quando una cosa è di tutti, come la società che è composta dai nostri bambini, puoi decidere di mettere da parte polemiche e negatività ed immaginare che sia possibile qualcosa di diverso, di migliore, di ben fatto e ben riuscito.

Quando una cosa è di tutti, come il futuro, il pensiero che questi bimbi porteranno dentro il loro immaginario di vita un ricordo talmente bello, corale ed armonioso come questo concerto, ti porta a desiderare di partecipare, di condividere quella costruzione ideale.


Che senso hanno le nostre misere vite se non ci sentiamo parte di una cosa di più grande di noi?

Lo devi leggere (7) Esistono libri per curare la nostalgia. A casa di Judith Hermann, Fazi Editore   “Questo mondo è il mio mondo perché mi ...